Perché votiamo? Un’analisi personale di un fenomeno collettivo

Perché votiamo? Un’analisi personale di un fenomeno collettivo

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Cronaca di una morte annunciata

Mi affascinano da sempre i proclami post elettorali: l’analisi delle sconfitte (meno delle vittorie), il banco che salta tra le coalizioni, le accuse di rito, lo scarico di responsabilità. Ma soprattutto, lo straccio delle vesti per il calo ineluttabile e imperituro dell’affluenza.

Prima di ogni tornata e da ogni parte politica, il leitmotiv è sempre lo stesso: dobbiamo intercettare il voto degli indecisi e di chi non andrà a votare. Dopo ogni tornata e dalla parte politica che ha perso, il leitmotiv è sempre lo stesso: ha vinto il partito dell’astensione.

Strana affermazione, poiché non si capisce cosa accomuni questo gruppo di persone, se non la scelta disaggregata di non partecipare. Mi pare necessario interrogarmi dunque, prima ancora del perché una persona (non) vada a votare, sul perché si aggreghi ad altri.

Berlinguer e il potere

Oggi cade il quarantesimo anniversario della morte di Enrico Berlinguer. I miei feed sono pertanto invasi da spezzoni di interviste, card citazioni, profetismi laici vari. In uno dei tanti, l’intervistatore gli chiede: “cos’è per te il potere?”.

La risposta lascia disarmati dalla semplicità. Parafraso: un mezzo per rendere reali gli ideali in cui crediamo. Penso si possa glissare, senza perdita informativa tale da non comprendere l’oggi, sul sistema politico/partitico italiano. Resta però un concetto essenziale: la democrazia, oltre che procedure formali (quindi votazioni) è competizione per l’accesso al potere e all’allocazione di risorse scarse, economiche o valoriali.

Fermiamoci ad analizzare questa dichiarazione.

Il reale, l’ideale, il credere

Rendere reale implica una capacità di un soggetto di compiere un atto tale che esso abbia un impatto sulla realtà. Ha anche una notevole capacità evocativa di processo: racconta un cammino, non una staticità. È la capacità in potenza di un soggetto di modificare l’attuale per avvicinarlo a ciò che esso ritiene normativo. E con soggetto, in questo caso, trattiamo un agente, non un individuo.

Passiamo al secondo punto: l’ideale. Generalmente, il concetto di ideale si definisce – prendiamo in prestito la definizione della Treccani – come: “che appartiene o è proprio dell’idea, intesa come entità essenzialmente mentale e spirituale contrapposta alla realtà esterna; quindi, in genere, che non ha esistenza se non nella mente, irreale, astratto”. Calata però in una competenza enciclopedica politica, il termine cambia significato, passando dall’irreale al concreto: “ciò che è concepito dallo spirito e dall’intelletto come bello e perfetto, oggetto quindi delle più alte aspirazioni, a cui ci si propone di avvicinare la realtà esistente”.

Dunque, mettiamo questi due elementi insieme: rendere reali gli ideali. Un processo che sia in grado di avere un impatto concreto sulla realtà, avendo come premessa logica e pragmatica ciò che è attualmente astratto e in divenire ma addirittura bello e perfetto.

L’ultimo termine è credere. Questa è la parte del discorso su cui, attualmente e personalmente, nutro più dubbi. Nel campo semantico di credere, troviamo termini quali fiducia, fede e convinzione, ma anche supporre e dubitare. Avanzo dunque una supposizione e un dubbio, credendo con convinzione che questa possa essere degna di fiducia: i nostri politici credono realmente in ciò che propongono? 

Il partito dell’astensione

Ma facciamo un gioco e diamo per vere tutte le affermazioni precedenti, accettando pure che i politici credano in ciò che dicono. Rimane il problema da cui siamo partiti. Come si può considerare come blocco monolitico un aggregato magmatico, disomogeneo, interclassista e ideologicamente nebbioso come il cd. partito dell’astensione?

Se accettiamo la definizione di potere data da Berlinguer (e in qualche modo, magari idealmente, possiamo accettarla), come si crea un noi, un gruppo in grado di avere ideali, credere e camminare insieme per rendere reale ciò che è solo in potenza?

Penso che questo sia logicamente scorretto e pragmaticamente irrealizzabile. L’astensione non è un fenomeno di massa, è l’aggregato di comportamenti singoli che ha un risultato di massa. E sono cose molto diverse. Non basteranno – anche se è bene si facciano – i video di sensibilizzazione, le campagne di comunicazione, gli appelli e le foto al seggio.

Che fare?

Serve immaginare nuove strade per la partecipazione democratica. E serve che siano tutte accomunate da un singolo elemento: il cammino, il processo dall’ideale in potenza al risultato concreto. Potremmo nominare molti esempi di questo modo di interpretare la democrazia, ma siamo andati già molto lunghi. Vogliamo dunque nominare un esempio su tutti, che racchiude in nuce questo elemento: i bilanci partecipati. 

Si, ok, ma ora è arrivato il momento di rispondere alla domanda che ci siamo posti inizialmente. Perché votiamo?

Votiamo, in fondo, se pensiamo di poter avere un impatto. La spiegazione economica, la spiegazione di protesta, la spiegazione valoriale hanno questo come elemento necessario (e non sufficiente): avere un impatto.

Ma sul tema della possibilità di avere o non avere un impatto sulla società attraverso la partecipazione politica si apre un altro grosso capitolo che, magari, tratteremo un’altra volta.

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