Le dimensioni, in un testo, fanno la differenza.
E questo vale sia per chi il testo lo legge, sia per chi lo progetta.
Nasce così l’intuizione di esaminare i testi – anzi, i microtesti – al microscopio, all’interno di una riflessione più ampia sulla user experience (UX).
Partiamo dal principio: cos’è un microcopy?
I microtesti, più spesso detti microcopy, sono stati “sdoganati” per la prima volta nel 2009, quando ne ha parlato Joshua Porter (ex UX director di Hubpost e autore di diversi testi d’approfondimento sul tema della UX). In un articolo pubblicato sul suo blog e intitolato proprio “Writing Microcopy”, Porter si lancia nella descrizione di un caso di studio che ha toccato con mano, riguardante un form di check-out creato per un e-commerce.
Dopo aver descritto la sua esperienza di progettazione e ottimizzazione del form, Porter arriva a concludere (e tra poco vedremo perché) che i microcopy possano avere un impatto incredibile sulla resa del sito e che, quindi, non debbano essere giudicati in base alla dimensione, ma all’efficacia.
In che maniera questi piccoli testi possano incidere sull’efficacia di un sito? E a che servono?
Servono a orientare l’utente, a rendere la sua esperienza nel sito più intuitiva possibile. Servono a ridurre la sensazione che ci si trovi davanti a una macchina o, quantomeno, a rendere la tecnologia più umana possibile. Servono, in ultimo, a rendere il brand unico, a completarne e rafforzarne l’identità. Alcuni brand infatti (anche personali) hanno un tono di voce unico e inconfondibile ed è sacrosanto fare in modo che questo sia evidente anche dai microtesti del sito: più in generale, tutta la scrittura dev’essere orientata a questo.
Due esempi pratici.
Nel primo caso, abbiamo una “book influencer” famosa soprattutto grazie a Instagram. Con grande naturalezza, @Tegamini riesce sul suo sito a comunicare con ironia anche l’informativa per i cookie. E, diciamocelo, tutti noi leggendola empatizziamo con lei.
Per un secondo esempio, ecco la pagina di “errore 404” di un gigante che non ha bisogno di presentazioni: TripAdvisor. Anche qui, il testo è “subordinato” alla mission del brand.
Un disclaimer necessario: questi due esempi “ironici” potrebbero far pensare che basti divertire l’utente per migliorare la sua esperienza. Bene, NON è così.
L’esperienza dell’utente dev’essere prima di tutto scorrevole, chiara, intuitiva. I testi, insomma, non devono lasciar spazio all’ambiguità. Ma, di contro, un sito che strappa un sorriso è un sito su cui restiamo più volentieri (N.B. se coerente con l’identità del brand!).
La UX writing e i microtesti che popolano il sito diventano allora anche strumenti indispensabili per – parola magica fra 3..2..1.. – CONVERTIRE.
Lo scenario mette in evidenza che i siti internet non sono morti né tantomeno si possano considerare inutili. Anzi, specialmente in un momento in cui gli e-commerce sono quasi padroni del mercato (e i negozi fisici vanno e vengono, per le chiusure determinate dall’emergenza sanitaria), sarebbe il caso di spendere tempo sugli elementi testuali del sito e sul miglioramento dell’esperienza dell’utente.
Vale la pena tornare allora sull’esperienza raccontata da Porter nell’articolo del 2009 con cui “inaugura” la storia del microcopy: nel form di check-out dell’e-commerce, Porter aveva notato che 1 transazione su 10 falliva per errori nell’indirizzo di fatturazione. Decise quindi di aggiungere una specifica nel form per invitare gli utenti a controllare di aver inserito correttamente tutti i dati e BOOM! Niente più errori e un recupero del 10% di transazioni.
Il suo caso di studio ci riporta con i piedi per terra…
Progettare, controllare, verificare se e dove sorgono i problemi è più che indispensabile.
Solo così si può correre ai ripari in fretta, solo così si può crescere.
Un caso simile è stato raccontato da Maggie Stanphill (senior UX writer di Google), a proposito della ricerca di hotel attraverso il motore di ricerca. La responsabile ha verificato, infatti, che modificando la call to action da “Book a room” a “Check availability” il numero di clic aumentava del 17%.
Se gli esempi di Porter e della Stanphill possono sembrare “freddi”, è giusto sottolineare ancora che il discorso è molto più ampio. Bisogna tenere sempre presente la personalità del brand e, anzi, bisognerebbe far sì che il sito la mostri (almeno in parte).
Un’occasione unica, in questo senso, sono proprio le pagine 404.
Abbiamo già citato sopra quella di Tripadvisor e qui sotto riportiamo invece quella dell’Estetista Cinica: una delle imprenditrici più ironiche che circolino su Instagram, nonché accanita fan del Gin Tonic.
Chi la segue, lo sa: la sua pagina 404 non poteva che essere questa.
La conclusione, dopo aver riportato casi di studio ed esempi, è quasi scontata: progettare con attenzione – e con amore! – i (micro)testi di un sito è un’occasione da non perdere, per mille motivi.
Per rendere il sito più coerente con il brand e più coinvolgente, per aiutare l’utente nella navigazione e (perché no?) per aumentare le conversioni.
Che sicuramente male non fa.
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